mercoledì 11 maggio 2016

Uberlingen - Langenargen. Case viaggianti


di Giulia Cocchella



Il tratto di ciclovia che da Uberlingen porta a Friedrichshafen costeggia il lago a poca distanza, passando in mezzo alle vigne. La strada profuma di erba appena tagliata e capita spesso di vedere persone intente a ritoccare le siepi, piantare fiori, curare le aiole… 
Chiamatelo amore o attenzione, chiamatelo come volete, in una lingua o in un'altra, ma questa cura riposta nei gesti diventa parte, molecola delle cose: si fa giardino fiorito che muove il sorriso, panchina verniciata di bianco dove è bello sedersi, vaso di fiori alla finestra, buono per chi è dentro casa e per chi passa. Deve essere questo il segreto che sta dietro a tutto ciò che luccica e profuma di buono nei paesi che sto attraversando.
Appena dietro gli alberi, si sente il rumore discreto delle piccole onde del lago. Sulla destra compare ogni tanto un varco che porta alla spiaggia.


Poco prima di Meersburg, la ciclabile si tinge di rosso come a preparare un ingresso trionfale. 



In alto si intravede la torre del Burg, il Castello medievale, e appena oltrepassata la porta sulla via principale si allineano le tipiche case a traliccio, colorate e fiorite. In un negozio che vende orologi a cucù, riconosco un modello identico a quello che aveva mia nonna. 


Ne sono sicura: il cucù che a me sembrava un gabbiano con le ali pennellate di azzurro, e la donnina in altalena che si dondola su e giù, donnina in virtù dell'abito e del cappello perché il viso mi è sempre sembrato quello di un uomo; risento persino, per un attimo, quel ticchettio caratteristico che faceva la molla, come uno schiocco di lingua. E mi viene l'idea bizzarra, confusa – dura meno di un battito di ciglia – di entrare e comprare il cucù più bello per lei.






La cittadina si arrampica in salita. Scopro un mulino ad acqua, insegne a forma di brezel e di animali, glicini che scalano facciate, che sostengono tetti dalle tegole stondate, che svelano torri, che segnano l'ora in numeri d'oro. L'occhio annota, insegue, si perde.




Ancora vigne, meleti, un paio di piccoli paesi protesi sul lago e si arriva a Friedrichshafen.




La mia guida consiglia di fermarsi qui a dormire, ma ho una mezza giornata ancora a disposizione e l'aspetto severo dei due campanili della Schlosskirche mi fa cambiare programma. 


Mi fermerò il tempo necessario a visitare con calma il Museo Zeppelin per poi proseguire fino a Eriskirch o Langenargen, che dalla cartina promettono di essere più piccole e ospitali.
Il Museo Zeppelin è una meraviglia museologica e di contenuti. Osservo le vetrine con gli occhi tondi, come le guarderebbe un bambino, perché i cartellini sono quasi tutti in tedesco (unica pecca). Dal piano terra, una scala porta al livello superiore, ma si entra in realtà nella ricostruzione degli ambienti interni del dirigibile LZ 129 Hindenburg. Ci sono poltrone, stanze, cabine. 
Penso che tranne in pochissimi casi, quando l'uomo si è trovato a progettare nuovi mezzi di trasporto, li ha fatti simili ad una casa o ad una parte di essa, come se il viaggio fosse possibile soltanto mantenendo un certo corredo domestico, in grado di rassicurarci. Guardo le magnifiche riproduzioni di tutti i modelli di airships, come i pannelli le chiamano a mio beneficio: con buona pace dei loro geniali inventori, sono tutti salotti volanti, alla fine. Intanto, come mi capita quando scrivo, trovo un filo sottile che collega i pensieri di questo viaggio: lega insieme parole di casa, radicamento, sradicamento, viaggio e lingue diverse. 
Provo tutti gli esperimenti di aerodinamica che il museo mi mette a disposizione, senza poi capire un tubo di ciò che ho fatto (ancora una volta le “soluzioni” sono in tedesco), sbalordisco davanti alle saliere a forma di dirigibile della Zeppelin Wunderkammer e infine saluto l'eccentrico Gustav Mesmer, che mise le ali alla sua bicicletta.
Divorati il brezel e un altro tipo di panino buonissimo e impronunciabile che ho appena acquistato dalla signora bionda e rosa di una backerei, risalgo in sella e mi avvio verso Langenargen sotto la pioggia. Incontro sole, poi di nuovo pioggia. 


Gli stagni di Eriskirch, in mezzo a prati di soffioni e ranuncoli, ospitano ranocchie rumorose che non si fanno vedere.




















A Langenargen, grazie all'aiuto provvidenziale della signorina dell'ufficio del turismo, trovo da dormire in una casetta dal tetto aguzzo. La signora Janisch si affaccia su Hirschweg strasse dalla finestra della sua veranda: Hallo! Ci intendiamo a gesti e ci scusiamo a vicenda per non conoscere l'una la lingua dell'altra. Ma Janisch mi sorride e io a lei, mi mostra la mansarda con le tendine lilla dove dormirò e mentre mi lascia le chiavi penso che oggi ho scoperto il sorriso come forma minima di comunicazione. Ed è una bella scoperta.



Faccio una doccia calda ed esco a fare la spesa al frischemarkt (vita dura per i vegetariani da queste parti!).


Mi fermo a prendere qualche appunto sul lungolago e accade in questo istante: mentre sono seduta qui, vicino al castello di Monfort che sembra galleggiare sull'acqua, il sacchetto della spesa al mio fianco e gli amici che mi scrivono, proprio io, proprio qui, mi sento a casa.



There is still room in the skies for you
Quick, devise yourself a pair of wings
Let them lift you up so you are free
Float through the air
Ah, how happy you would be

Gustav Mesmer


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