sabato 31 maggio 2014

Perdersi, parte III

di Giulia Cocchella

Quando i passeri si sono mangiati le briciole, quando i sassolini bianchi che dovevano riflettere la luce della luna sono inutili perché non c’è luna, in qualunque favola vi troviate, l’unica speranza che vi resta è quella di fare un buon incontro.
Mirco sta parlando al telefono, quando accosta il furgone a pochi metri da noi. Io penso: si è fermato perché sta parlando al telefono. Valeria pensa: si è fermato, siamo salve! Glielo leggo negli occhi quando mi guarda, un attimo prima di scodinzolare verso il finestrino del furgone. Il finestrino si abbassa, Mirco posa il telefono e chiede: dove andate?
Qualche secondo dopo stiamo caricando le bici sul suo furgone, così felici, e grate, e piene di sorpresa che ci viene solo da ridere.
Mirco abita poco oltre San Polo, e non solo queste colline sono come le stanze di casa sua, ma conosce personalmente la signora che gestisce il b&b dove siamo dirette.
Chiacchieriamo del nostro viaggio e del suo lavoro, mentre il furgone si inerpica lungo una salita che mai saremmo riuscite a fare da sole, a quest’ora, poi.
Stasera stavo valutando di andare a buttarmi giù dalla Pietra di Bismantova, dice scherzando Mirco, dopo averci raccontato la sua giornata nera, poi ho incontrato voi due. Ride. Ridiamo anche noi, mentre fuori scorrono le colline, sfumano l’una nell’altra come onde lunghe.
Si dice che chi nasce sul mare non può allontanarsi di molto dalla costa, non può realmente vivere altrove. Io di fronte a questo mare immobile, fatto di onde verdi, quasi nere adesso che il sole sta toccando l’orizzonte, io davanti a questo moto ondoso collinare, davanti a questa terra che pure si muove perché siamo noi a spostarci, io sento che potrei dimenticarmi la malinconia. Sentirmi a casa anche qui, senza aria salmastra.

(foto di Valeria Pistarino)

Mirco si offre di portarci a vedere un paese qui vicino, prima di salutarci, se vogliamo. È fatto di case rurali, a lungo disabitate, che ora ospitano una comunità di monaci buddisti: non è segnato sulle guide, è uno di quei luoghi che si scoprono soltanto quando qualcuno vi ci porta.




Votigno ci accoglie senza un volto alla finestra, senza un rumore. Ci sono statue del Buddha davanti agli usci delle case e aforismi e citazioni scolpite nella pietra e fissate tra i mattoni di muri e pareti. C’è qualcosa nell’aria che si respira, che induce a parlare sottovoce.


Giriamo piano tra le case, percorriamo la piccola piazza e facciamo fotografie, nelle quali non rimarrà quasi nulla di questa particolare congiunzione terrena di condizioni perfette – luce radente, aria fresca, profumo di fiori, concerto per vento solo.
Se fossi ancora capace di pregare, questo sarebbe un buon posto.
Soltanto quando torniamo al furgone, riprendiamo a parlare normalmente. Ci sono luoghi così.



Ormai è deciso che si cena insieme, le due cicliste perdute e il nostro salvatore!
Al b&b Le Pietre di Canossa, Marina apre la cucina solo per noi, che siamo le uniche persone al tavolo, oltre a lei e suo marito. Ci porta ogni genere di prelibatezze locali: tigelle, gnocco fritto, confetture fatte da lei, con mirtilli, mele e caffè, carote, poi formaggi assortiti tra i quali svetta, re di queste terre, il Parmigiano condito a festa con l’aceto balsamico.
Ci prende quell’ebbrezza da buon cibo che fa chiacchierare a lungo e senza fatica, degli argomenti più diversi. Anche il vino è buono e a un certo punto, non so più dire chiacchierando di che cosa, esce fuori la parola morbidezza. La pronuncia Mirco. Forse a proposito del buddismo. Fatto sta che io di questa parola non mi libero fino a notte fonda, mi gira nella testa come un criceto impazzito, si sviluppa verso l’alto, disegna ghirigori tra le mie sinapsi. E non è solo il vino: mi succede, con le parole.
Anche quando ci salutiamo – morbidezza morbidezza morbidezza – e ci diciamo grazie, che è stato bello incontrarsi e lo è stato davvero – morbidezza – anche quando mi sono lavata i denti e siamo sotto le coperte e io dico a Valeria, ridendo, certo che ci è andata bene e poi, che bella giornata, e poi buonanotte.
Anche dopo tutto questo, nel silenzio perfetto della notte, la morbidezza si insinua nel mio sonno.
Sogno di aderire a ciò che accade senza opporre spigoli, morbidezza, sogno di cambiare direzione per un consiglio ricevuto per caso, su un treno. Essere morbidi è questo, penso, sogno, essere disposti a perdersi col sorriso.
L’indomani l’aria è fresca e il sole incerto, però non piove. Anzi questo tempo strano, variabile, ci regala nuvole sontuose lungo la strada, nuvole che si incagliano nelle torri, nei ruderi dei castelli, che si insinuano negli sfondi delle nostre foto.


Il Castello di Canossa è così bene arroccato sulla sua collina che da lontano sembra una pietra nuda, poi ci avviciniamo e compaiono i segni del lavoro dell’uomo: finestre, aperture, pareti, costruite e distrutte e ricostruite ancora.



Ci addentriamo tra i ruderi, poi guardiamo il panorama che da quassù è davvero incredibile: i calanchi qui sotto, poi colline a perdita d’occhio e ancora qual mare immobile di ieri sera, adesso di un verde più chiaro.
Concludiamo che Matilde la sapeva lunga. Erano suoi non solo questo castello, ma praticamente ogni altra fortificazione presente o scomparsa che si possa attestare in questi luoghi.



Ci dirigiamo al Castello di Rossena, ma è chiuso e dobbiamo accontentarci di sbirciare dal cancello.
Quando torniamo alle bici, tre cagnolini ci vengono incontro scodinzolanti e festosi. Questo è un viaggio all’insegna degli incontri inaspettati, penso, mentre coccoliamo i cuccioli e loro noi, e poi loro di nuovo, e noi anche, che se fosse un fumetto sarebbe una nuvola di musetti e sorrisi e codini e carezze.



Ci rimettiamo in sella dopo questa sessione di coccole e affrontiamo la discesa.
Le ruote scivolano veloci lungo i tornanti e noi le lasciamo andare, senza freni, salvo inchiodare qua e là per qualche foto. Siccome oggi è davvero difficile perdersi, perché la strada è sempre dritta, andiamo a cercarci la nostre dose di brivido provando ad impaludarci in uno stagno, attratte da uno strano verso (rane?). Torniamo indietro in tempo, solo con le suole bagnate.
La strada ci riporta a casa, inesorabile, e quando siamo a Parma ci prende un po’ di malinconia.
Però saliamo sul treno giusto e ci muoviamo nella direzione opposta a quella di tre giorni fa. Si vede che abbiamo esaurito le nostre riserve di contrattempi, penso, si vede che un viaggio finisce quando nostro malgrado troviamo la strada di casa. Ma il pensiero, le orecchie, il naso, gli occhi sono ancora là, persi tra le colline.

Pisti?
Eh…
Dormivi?
Dormivo.
Dove siamo?
Bo…
Ricordiamoci che a Genova dobbiamo scendere.
Sì…Tulli?
Eh…
Dobbiamo proprio?


lunedì 19 maggio 2014

Perdersi, parte II

di Giulia Cocchella


Se scrivo “perdere”, subito si dispiegano davanti agli occhi scenari tremendi di privazioni, disonori, vittorie subite, cause perse, perdigiorno e perdizioni. Provo con “perdersi” ed è ancora peggio: tutti lì a pensare ad Hansel e Gretel, la strada smarrita nel bosco, la strega che avrebbe voluto stufarli con le patate, la strada sbagliata e la cattiva strada.
Come sono uguali i nostri pessimismi.
Ma siamo proprio sicuri?
Perdere completamente l’orientamento e non sapere più da che parte si è girati, perdersi, insomma, non è poi così male: per ogni strada smarrita ce n’è una imprevista, quella che non avreste mai fatto, altrimenti.
A voler mettere i fatti uno in fila all’altro, col senno di poi, è chiaro che io e Valeria abbiamo iniziato a perderci sul treno per Modena.


Lasciata Bologna dopo un’abbondante e tarda colazione, carichiamo le bici sul treno con il fermo proposito di scendere a Modena e andare a visitare la riserva faunistica del fiume Secchia, oh sì. Mi sono portata da casa persino il mio bel libretto per riconoscere gli alberi e ho la macchina fotografica così carica che potrei fare un book ad ogni zanzara che vola. Non fosse che sul treno, nel vagone biciclette, conosciamo Merlino e Gioia.
Ci siamo subito simpatici. I ragazzi sono di Parma, ma vengono da Lucca e precisamente dal Criterium delle mura, una gara per sole biciclette a scatto fisso. I due hanno l’aria un po’ sfatta, la gara è iniziata alle due di notte, ci raccontano, ma per tradizione ci si vede a mezzanotte e prima di mettersi in sella si mangia e si beve. Parecchio. Prima della partenza, chi non supera la prova etilometro – almeno 0,50 – non è ammesso alla gara.
Gioia è stata bravissima: unica donna, ha percorso i dodici chilometri in poco più di otto minuti
Chiacchieriamo, e intanto Merlino, che a Parma ha una ciclofficina dove  ripara e assembla biciclette, mette a posto i freni della ruota anteriore della bici di Valeria.
Poco prima di salutarci, dove andate?, ci chiedono. E noi pronte: al parco del fiume Secchia.
Si guardano, sembrano non conoscerlo. Poi ci raccontano del castello di Canossa.
Eccola lì, la strada imprevista; il momento in cui la possibilità di cambiare direzione si presenta all’orizzonte e vuoi lasciarla lì, intentata? inesplorata? persa? La prospettiva si ribalta e ora tutto quello che sappiamo è che non vogliamo perderci il castello, il suo profumo di storia antica e ginestre, le colline del Parmigiano.
Ci salutiamo, scendiamo a Modena, giriamo in bicicletta attorno al suo Duomo, al mistero delle sue metope, poi torniamo in stazione e facciamo i biglietti per Reggio.


Da Reggio, ci ha spiegato Merlino, dobbiamo seguire le indicazioni per San Polo d’Enza.
Intanto per iniziare, trovare la strada per Reggio centro è un’impresa non da poco, complice anche il cartello infingardo che ci accoglie subito fuori la stazione: “tutte le direzioni”. Ora non voglio fare facili polemiche, ma usare un rettangolo di metallo, verniciarlo di bianco e di blu, prendersi anche la briga di fissarlo ad un palo per dire che tutte le strade portano a Roma, mi pare almeno uno spreco di materiale. Fatto sta che, contro ogni ragionevole logica, il cartello ci rassicura, ci allarga un sorriso ebete sulle facce e fa sì che iniziamo il nostro viaggio alla volta di Canossa con qualche chilometro superfluo. Ma il sole splende, l’umore è alto, abbiamo appena telefonato ad un b&b che ha un posto per noi...chi ci ammazza?
Perdersi richiede anche una certa creatività linguistica. Se per fare un esempio, un esempio qualsiasi, ogni volta che chiedete un’informazione storpiate orrendamente il nome del paese che dovete raggiungere, che è sì una tappa intermedia, ma di fondamentale importanza per arrivare a destinazione, è facile che i vostri soccorritori si disorientino e vi diano indicazioni diverse.
Scusi, la strada per San Polo, passando per Bibbiena? Scusi, da che parte per Bibbiona? Bubbiena? Per Bebbiano? Babbieno? Scusi, Babbiona? Babbuino? Sempre dritte per Bibbiano? Bubbieno?Quando arriviamo finalmente sulla SP28 siamo così fiere di noi che stacchiamo le mani dal manubrio per applaudirci. La strada, anche se molto trafficata, ci riserva panorami di rara bellezza e in barba ai camion  che ci spettinano ad ogni sorpasso, scattiamo foto come giapponesine in vacanza.



All’ennesima rotatoria con nomi di paesi e città fuoriprogramma, incominciamo a valutare l’idea di aver sbagliato strada. È un sospetto che abbiamo avuto sin dall’inizio, una sottile inquietudine che da Reggio, quando abbiamo preso la prima provinciale nel senso opposto a quello utile, non ci ha mai del tutto abbandonate, siamo oneste. Nessun reale sconforto: la sensazione di non essere sulla retta via, ma su una lì vicino, da qualche parte, ci è tutto sommato familiare, al punto che non ci allarmiamo fino ad un’ora che i più definirebbero tarda.
Alle diciannove e venti postmeridiane, al secondo giro dell’ennesima rotonda, sfatte come criceti nella ruota, io e Valeria, Valeria ed io, per la prima volta abbiamo idee diverse sulla strada da prendere.
I nostri indici da belle addormentate puntano dritti come fusi: di qua, di là.
Perdibili.
Perse.

So bikeproud of us - Perdersi, parte I

di Giulia Cocchella


Avrei voluto scrivere in presa diretta, raccontare per filo e per segno ogni incontro, ogni chilometro pedalato, ogni papavero incontrato lungo la strada. Ma la verità è che alcune cose si vivono e basta, puoi tentare di raccontarle dopo, se ti riesce, puoi raccogliere qualcosa dal vivo materiale del viaggio e trasformarlo in parola. Sarà quasi sempre un tentativo maldestro, la differenza tra un fiore di campo e un fiore raccolto, sistemato in un vaso. Ma ci provo, mi dico, ci provo lo stesso: il viaggio, anche se piccolo, di pochi giorni, è già diventato ossa delle mie ossa, e pelle della mia pelle, non ho niente da perdere.


Il pretesto è stato il Bikepride di Bologna, la parata dell’orgoglio ciclistico, in una città in cui c’è da essere orgogliosi davvero. Io e Valeria arriviamo a Bologna nonostante tutto, anche in barba ad uno sciopero generale dei treni regionali dell’Emilia Romagna, caricando le bici, a Milano, nientemeno che su Italo, dopo abbondanti sfarfallii di ciglia al personale del treno.
Arrivate in Piazza Maggiore, davanti a S. Petronio, c’è già un elefante a pedali e un carro con catapulta ad acqua trainato da una bicicletta.
È chiaro da subito che le nostre trecce e frange posticce, rosa fucsia, attaccate sotto il casco, sono una delle cose più sobrie che si vedano in giro, ma il clima è tollerante, una vichinga fatta e finita ci fa pure i complimenti per non farci sentire da meno.



Bologna è orgogliosa e fa bene.
C’è un rispetto per il ciclista urbano che qui a Genova neanche ci sogniamo, gli automobilisti si fermano quasi tutti di buon grado e un autobus risponde ai nostri scampanellii con colpi di clacson e sorrisi. La città, invasa da quest’orda di barbari che siamo, strombazzanti, urlanti, colorati e tanti, soprattutto tanti, risponde facendo largo e fotografie. Ci supera una bici con un calcio balilla al traino, un pulcino gigante pedala su una bici minuscola, poi api, vichinghi con corna di palloncini, qui tutti sanno andare in bicicletta!

Incontriamo Simona, amica di amici, che si fa trainare su un carretto perché ha una clavicola rotta.
Siete le Genovesi!, ci accoglie, poi incita l’orda a pedali con una finta mazza ferrata che brandisce con il braccio sano. I barbari in bicicletta non li ferma nessuno!


Guardiamo questa città che non conosciamo con gli occhi curiosi del turista, ma girarla così, in mezzo ai bolognesi, pedalando fianco a fianco, ci fa sentire a casa e ci permette di perderci per vie sconosciute senza smarrire la strada. Per il momento.
Appunti di viaggio:
1) portarsi a Genova un po’ di questa speranza (è solo un fatto di cultura, e la cultura si può costruire)
2) procurarsi un campanello chiassoso, a forma di orso o mammuth, per il prossimo anno
3) una volta che hai smontato la ruota davanti della bici della tua amica, se ci tieni, all’amica, rimontale i freni dritti
4) portarsi sempre una sacca porta bici (o molto mascara)






giovedì 8 maggio 2014

Il genere dei fiumi

di Giulia Cocchella

Pensate pure che sia un argomento di poca importanza, quelle domande attorno alle quali solo gli sfaccendati possono perdere il loro tempo, ma io sulle questioni linguistiche mi incaglio, non riesco a passare oltre, a rimanere indifferente. È costituzione, mi dico come per giustificare qualche chilo di troppo, ma davvero è da domenica che ci penso, e più ci penso più il pensiero si allarga, più il pensiero si allarga, più comprende altri argomenti, tutti senza soluzione. La domanda è questa: perché alcuni nomi di fiume sono maschili e altri femminili?
Ridete, ridete pure, ma la lingua non è mai a caso, i nomi connotano le cose, sono il nostro tentativo di comprendere e ordinare il mondo, un mondo che abbiamo trovato creato, fatto e finito, zac, con un albero di mele al centro e guai a chi ne mangia.


Piemonte nascosto in bicicletta, dice il programma, e io non posso fare a meno di iscrivermi perché sono curiosa di natura e se il Piemonte me lo nascondi, subito mi viene voglia di cercarlo, uguale uguale a Eva, tanto per rimanere in tema. Partiremo da Visone, continua il programma, poi incontreremo Rivalta Bormida, Castelnuovo e Cassine, Gamalero, Frascaro e Oviglio, fino ad Alessandria, il tutto lungo il corso – e qui si vede l’astuzia del compilatore – del fiume Bormida. Il Bormida o la Bormida?
Solo un’ora di treno e facciamo scendere le biciclette in un paesaggio completamente diverso da quello di partenza.
La natura ha steso fuori tutti i suoi verdi migliori, ci sono alberi così carichi di verde che sembrano dipinti di fresco, ancora da asciugare, aggiunti con un ultimo colpo di pennello un secondo prima del nostro passaggio.





Nei campi a lato della strada, frusciano spighe di grano, orzo e altri cereali che non conosciamo, mentre nell’aria volano batuffoli di polline enormi, grossi come gatti persiani, che i più romantici paragonano a fiocchi di neve.


Sarà per l’ottima compagnia, o per la strada sempre piana e colma di sole, ma mi sale un sorriso fino alle orecchie e una voglia generosa di cantare, che però riesco a tenere a bada quasi sempre a beneficio dei presenti.
Finché una piccola deviazione ci porta davanti a un panorama fluviale largo e assolato, di quelli che inducono al sospiro… non fosse per l’annosa questione, la Domanda che oggi mi assorbe tutte le energie neuronali residue: è il Bormida o la Bormida che si dispiega davanti a noi?


Perché potete anche semplificare e sostenere che, poiché finisce per a è femmina, ma cosa mi dite allora del Volga? E il Brenta? Che cosa manca loro rispetto alla Loira o alla Dora?
Il nome dei fiumi sarebbe neutro, se esistesse ancora il neutro nella lingua italiana, sostengono alcuni. Ma posto che non esiste, perché abbiamo deciso che un fiume è femmina e l’altro è maschio?
A complicare la questione ci sono i fiumi che cambiano genere. Oh, sì. Il Brenta, fiume maschile nell’uso comune, qualche tempo fa era femmina, si faceva chiamare la Brenta, chiedetelo ai veneti se non mi credete.
Per non parlare dei fiumi che sono fiumi maschi alla sorgente e fiumi femmina alla foce, o viceversa, senza che sia chiaro che cosa capiti loro nel mentre.
Dove non arriva la comprensione, soccorre la poesia: Carducci cita “la Bormida al Tanaro sposa”, da cui si evince che siamo di fronte a un’unione tradizionale, etero, tra un fiume maschio e un fiume femmina, la Bormida, appunto.
E adesso che la guardo bene, la Bormida, non ho più dubbi: ha un animo femminile, è femmina in quest’ansa ampia che distende in mezzo alle rive di fango, è femmina nel modo in cui accoglie le sponde verdi e gli alberi, nella qualità del suo movimento. È femmina perché sono femminili le sue acque nel loro muoversi, tanto che non è chiaro in che direzione vada il fiume.





Proseguiamo ancora, attraversiamo paesi piccoli e quasi disabitati, mentre su tutto dominano i campi e la natura.
Riusciamo a intrufolarci nel parco del Castello di Oviglio, con i suoi alberi secolari, e mi trovo a parlare piacevolmente di piante e talee con Sara, mentre pedaliamo verso Alessandria.


Torno a casa lungo il Bisagno, che ha dato il nome di battaglia al partigiano Aldo Gastaldi, e penso che i fiumi hanno il genere che è loro proprio, che forse la scelta linguistica deriva dall’osservazione, dall’esperienza e nient’altro. Che in definitiva, anche pedalando in capo al mondo, anche dopo il biblico morso della conoscenza, il segreto profondo delle cose, per fortuna, resta intatto.